L'altro è l'inferno. Di questo mi convinco sempre di più col passare degli anni. Quando sento parlare di empatia, di reciprocità, di quel fondamento intersoggettivo dell'esistenza umana, che costituirebbe il reale valore della vita, mi assalgono brividi di orrore. Perché queste splendide parole, con le quali i profeti dell'Umanità si riempiono facilmente la bocca, non sono altro che finzioni dell'intelletto, maschere che occultano la cruda necessità del conflitto esistenziale. Fare esperienza dell'altro significa scontrarsi con l'essenza del potere. Un potere dispotico, originario, fondamento di ogni potere teologico o politico. Prima di dio c'è l'altro. Il filosofo dice che l'uomo è dio per l'uomo.
E' vero. Ma allora è un dio crudele, inaccessibile, in grado di provocare nell'individuo un'attrazione irrefrenabile, una mistica della lacerazione, un incantesimo infame e opprimente.
Non riesco a togliermi dalla mente l'idea che il rapporto con l'altro è inevitabilmente un rapporto asimmetrico, dispotico, un vortice dal quale non si esce vivi.
Non riesco a togliermi dalla mente l'idea che il rapporto con l'altro è inevitabilmente un rapporto asimmetrico, dispotico, un vortice dal quale non si esce vivi.
Nessun uomo è un isola, non c'è dubbio, ma siamo iceberg alla deriva, piattaforme che galleggiano e nel caos dei vortici del mare esistenziale a volte entrano nella sfera d'attrazione di un'altra piattaforma. Ci si scontra, non c'è dolcezza nel contatto, ogni carezza è uno schiaffo di minore intensità.
La nascita sancisce l'impossibilità di ogni comunità, di ogni comunanza. La nascità è la lacerazione che ci separa inesorabilmente dall'unica relazione autentica con l'altro, quella che si ha
nell'utero con la madre, rapporto reciproco di comunione, dopo il quale inizia quel processo di distanziazione e individualizzazione che porta alla singolarità, a quel cammino di solitudine
verso la morte. E questo non significa che io credo nell'individuo, nel potere della monade e dell'unico. Anzi, l'inferno sta proprio nell'essere unici e contemporaneamente eguali ad un mare di altri simili - conflittualità tra unicità e uguaglianza - siamo al contempo monade e moltitudine. La vita è questa costante tensione tra conservazione e dispersione del proprio essere. Lottiamo quotidianemente l'orrore di essere inglobati dall'altro, di vedere la nostra individualità dissolversi, l'attrazione che l'altro opera su di noi ci spaventa, genera ritrazioni spontanee, fuggiamo dall'incantesimo che ci manipola e opera su di noi la violenza dell'appropriazione, che è il fondamento di ogni relazione affettiva-passionale. E allo stesso tempo desideriamo sempre di dissolverci nell'altro, scontrandoci con l'impossibilità della fusione che sperimentiamo nel sesso. E' il paradosso dell'esistenza umana. L'incantesimo che l'altro opera su di noi ci illude della possibilità del godimento, ci lasciamo sedurre dalla prospettiva di vedere placata la nostra fame, desiderare l'altro significa desiderare godere dell'altro ed è proprio nell'esperienza dell'impossibilità di questo godimento che sperimentiamo la lacerazione. Infatti non c'è godimento nel rapporto, c'è solo violenza e dispotismo, attrazione e repulsione. Entrambi i poli si ritrovano in una dinamica terrificante, nevrotica. Non esiste comunicazione, scambio, sintonia. Si parlano sempre lingue differenti. Siamo condannati all'incomunicabilità, un'incomunicabilità impossibilitata però a sfociare nel silenzio, ma piena di un vociare continuo.
La nascita sancisce l'impossibilità di ogni comunità, di ogni comunanza. La nascità è la lacerazione che ci separa inesorabilmente dall'unica relazione autentica con l'altro, quella che si ha
nell'utero con la madre, rapporto reciproco di comunione, dopo il quale inizia quel processo di distanziazione e individualizzazione che porta alla singolarità, a quel cammino di solitudine
verso la morte. E questo non significa che io credo nell'individuo, nel potere della monade e dell'unico. Anzi, l'inferno sta proprio nell'essere unici e contemporaneamente eguali ad un mare di altri simili - conflittualità tra unicità e uguaglianza - siamo al contempo monade e moltitudine. La vita è questa costante tensione tra conservazione e dispersione del proprio essere. Lottiamo quotidianemente l'orrore di essere inglobati dall'altro, di vedere la nostra individualità dissolversi, l'attrazione che l'altro opera su di noi ci spaventa, genera ritrazioni spontanee, fuggiamo dall'incantesimo che ci manipola e opera su di noi la violenza dell'appropriazione, che è il fondamento di ogni relazione affettiva-passionale. E allo stesso tempo desideriamo sempre di dissolverci nell'altro, scontrandoci con l'impossibilità della fusione che sperimentiamo nel sesso. E' il paradosso dell'esistenza umana. L'incantesimo che l'altro opera su di noi ci illude della possibilità del godimento, ci lasciamo sedurre dalla prospettiva di vedere placata la nostra fame, desiderare l'altro significa desiderare godere dell'altro ed è proprio nell'esperienza dell'impossibilità di questo godimento che sperimentiamo la lacerazione. Infatti non c'è godimento nel rapporto, c'è solo violenza e dispotismo, attrazione e repulsione. Entrambi i poli si ritrovano in una dinamica terrificante, nevrotica. Non esiste comunicazione, scambio, sintonia. Si parlano sempre lingue differenti. Siamo condannati all'incomunicabilità, un'incomunicabilità impossibilitata però a sfociare nel silenzio, ma piena di un vociare continuo.
Questo è l'inferno.