09/04/17

L'altro è l'inferno. Di questo mi convinco sempre di più col passare degli anni. Quando sento parlare di empatia, di reciprocità, di quel fondamento intersoggettivo dell'esistenza umana, che costituirebbe il reale valore della vita, mi assalgono brividi di orrore. Perché queste splendide parole, con le quali i profeti dell'Umanità si riempiono facilmente la bocca, non sono altro che finzioni dell'intelletto, maschere che occultano la cruda necessità del conflitto esistenziale. Fare esperienza dell'altro significa scontrarsi con l'essenza del potere. Un potere dispotico, originario, fondamento di ogni potere teologico o politico. Prima di dio c'è l'altro. Il filosofo dice che l'uomo è dio per l'uomo. 
E' vero. Ma allora è un dio crudele, inaccessibile, in grado di provocare nell'individuo un'attrazione irrefrenabile, una mistica della lacerazione, un incantesimo infame e opprimente.
Non riesco a togliermi dalla mente l'idea che il rapporto con l'altro è inevitabilmente un rapporto asimmetrico, dispotico, un vortice dal quale non si esce vivi. 
Nessun uomo è un isola, non c'è dubbio, ma siamo iceberg alla deriva, piattaforme che galleggiano e nel caos dei vortici del mare esistenziale a volte entrano nella sfera d'attrazione di un'altra piattaforma. Ci si scontra, non c'è dolcezza nel contatto, ogni carezza è uno schiaffo di minore intensità.
La nascita sancisce l'impossibilità di ogni comunità, di ogni comunanza. La nascità è la lacerazione che ci separa inesorabilmente dall'unica relazione autentica con l'altro, quella che si ha
nell'utero con la madre, rapporto reciproco di comunione, dopo il quale inizia quel processo di distanziazione e individualizzazione che porta alla singolarità, a quel cammino di solitudine
verso la morte. E questo non significa che io credo nell'individuo, nel potere della monade e dell'unico. Anzi, l'inferno sta proprio nell'essere unici e contemporaneamente eguali ad un mare di altri simili - conflittualità tra unicità e uguaglianza - siamo al contempo monade e moltitudine. La vita è questa costante tensione tra conservazione e dispersione del proprio essere. Lottiamo quotidianemente l'orrore di essere inglobati dall'altro, di vedere la nostra individualità dissolversi, l'attrazione che l'altro opera su di noi ci spaventa, genera ritrazioni spontanee, fuggiamo dall'incantesimo che ci manipola e opera su di noi la violenza dell'appropriazione, che è il fondamento di ogni relazione affettiva-passionale. E allo stesso tempo desideriamo sempre di dissolverci nell'altro, scontrandoci con l'impossibilità della fusione che sperimentiamo nel sesso. E' il paradosso dell'esistenza umana. L'incantesimo che l'altro opera su di noi ci illude della possibilità del godimento, ci lasciamo sedurre dalla prospettiva di vedere placata la nostra fame, desiderare l'altro significa desiderare godere dell'altro ed è proprio nell'esperienza dell'impossibilità di questo godimento che sperimentiamo la lacerazione. Infatti non c'è godimento nel rapporto, c'è solo violenza e dispotismo, attrazione e repulsione. Entrambi i poli si ritrovano in una dinamica terrificante, nevrotica. Non esiste comunicazione, scambio, sintonia. Si parlano sempre lingue differenti. Siamo condannati all'incomunicabilità, un'incomunicabilità impossibilitata però a sfociare nel silenzio, ma piena di un vociare continuo.
Questo è l'inferno.

26/03/12

E' molto tempo che non apro lo scrigno ammuffito della mia anima. Giorni, mesi e anni passati cullandomi in un tepore confuso, dove il tempo scorre ne lento ne veloce ma, semplicemente, scorre altrove. Non è cambiato nulla eppure tutto è così diverso, anche l'aria che galleggia indifferente per le strade è sempre più minacciosa, incombente e pesante, i volti che incontro sono grigi e privi di espressione, io li guardo e vedo fantasmi, involucri di carne vuota, poi mi volto verso di me e fatico a riconoscermi nel mio lento e inesorabile scomparire. Ignoro ciò che sono e ciò che sarò, ma nel profondo delle tenebre del mio intestino sgorga silenzioso il mio destino, lo vedo rivelarsi giorno dopo giorno alla mia anima, lentamente, subdolamente, come un emissario invisibile che escogita stratagemmi per rivelarci il suo messaggio.
Ogni cosa può essere un segnale, una breve frase pronunciata velocemente, un autobus che ci chiude in faccia le porte impedendoci di salire. Fatti banali che per lo più ignoriamo, ma nel tempo il nostro inconscio impara a scandagliare la realtà che ci circonda, riconoscendo i piccoli segnali lasciati dal passaggio del nostro misterioso emissario. Così, lentamente, immagazziniamo quintali d'informazioni fino a che all'improvviso ci sembra di scorgere un quadro generale rivelarsi dalle tenebre. E a quel punto è quasi è impossibile ignorare ciò che celano le nostre viscere. Bisogna solo avere il coraggio di aprire gli occhi e l'intelligenza di interpretare quel quadro fatto di elementi vaghi ma incisivi. Proprio come davanti a un'opera d'arte dobbiamo analizzare con pazienza ogni debole pennellata, ogni invisibile sfumatura. Soprattutto le sfumature, perchè è proprio lì che si nasconde la verità. Una volta che ci si è addentrati nel mistero di quell'opera d'arte prefigurata dal nostro destino saremo assaliti dall'angoscia e dall'impotenza. Ma quella visione renderà impossibile voltarci e fare finta di niente.
Io ho compreso il mio destino ormai da tempo. Prima era solo una vaga sensazione, un presentimento, un malessere insensato, che poi si è trasformato in certezza. E il paradosso è che non ho visto nulla. Il nulla più assoluto. Ed è proprio nel nulla che si nasconde il mio destino. E' nel nulla la soluzione dell'enigma. Un incombente nulla, che già si sta propagando dentro di me come una pianta infestante, senza sosta. Ogni mia particella sta scomparendo. Scompaiono le passioni, i sentimenti, i ricordi. Presto probabilmente scomparirà anche il mio corpo, con ossa e organi annessi. Ma la sola cosa che mi interessa è la mia anima. Scomparirà anch'essa nel nulla? E' questa possibilità che più mi inquieta. Il resto infondo non importa. Per evitarlo devo rendere immortali alcuni frammenti della mia anima, proprio nel senso di immortalarli, come piccole istantanee del mio spirito. Così mi sono scarnificato donando parti di me a chiunque abbia provato ad amarmi e inutilmente mi sono illuso che in questo modo non tutto sarebbe andato perduto. A nulla è servito, finito l'amore, infatti, quelle dee sadiche hanno gettato nelle fogne quei frammenti d'infinito che gli avevo donato. Così sono rimasto immensamente vuoto e poco è rimasto della mia anima. Un piccolo e fragile frammento. Non posso perderlo ma non posso neanche permettere che scompaia insieme a me. Sento che è quasi tardi ormai e devo in qualsiasi modo riuscire ad immortalare quest'ultimo frammento del mio spirito. Forse è proprio tra queste righe che lo nasconderò con cura. E probabilmente sarà inutile perchè rimarrà qui nell'infinito, solitario e nascosto da ogni sguardo. E quando, adempiendo al mio destino, scomparirò nel nulla, l'unica parte di me sopravvissuta sarà condannata ad un'oblio eterno. E' come se la solitudine che, instancabile, mi ha accompagnato lungo questo breve sprazzo di vita, non essendo sazia, senta il bisogno di nutrirsi anche del mio piccolo angolo d'immortalità. Non c'è via d'uscita.

01/02/12

<< Non sarà, questo viaggio, un'invenzione mia? Ed esiste il mare, esiste, mi domando, la notte? E io, esisto io? o è tutto un sogno? Tante volte me lo domando. E se ci sono, chi sono? Forse rappresento il Retaggio di cui, mettiamo, sono portatore? Ma come posso, allora, essere insieme vaso e contenuto? Queste sono le questioni che angustiano i miei intervalli di riposo.
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<< Un altro paradosso: pare che siano proprio queste pause di riposo, in cui non nuoto, a sostenermi nella mia nuotata. Avanti per un buon tratto d'acqua, oh più avanti e più in alto, annaspando con gli altri, eppoi galleggio esausto alla deriva e, avvilito, medito sulla notte, sul mare, sul viaggio, e frattanto la corrente mi riporta alquanto indietro, oh più indietro e più in basso: lentamente procedo così ma intanto vivo, vivo e mi lascio appresso, sì, alla fine, molti miei compagni annegati, che pure erano più forti, più degni di me, ma son rimasti vittime della loro implacabile joie de nager. Ho veduto i migliori nuotatori della mia generazione andar sotto. Ed è innumero il numero dei morti! A migliaia ne annegano mentre io penso questo pensiero, a milioni mentre io mi riposo prima di ripigliare la nuotata. E a decine, a centinaia di milioni ne sono spirati da quando noi ci mettemmo, fatti arditi dalla nostra innocenza, per questo formidabile cammino. "Amore! amore!" cantavamo allora, ed eravamo un quarto di miliardo, e il tiepido mare schiumava della nostra folle gioia di nuotare. Adesso sono andati tutti sotto: i leggeri come i grevi, i campioni e i gregari, tutti sotto, mentre io disgraziato nuoto avanti. Epperò questi stessi intervalli riflessivi che mi mantengono a galla m'hanno anche portato al dubbio, all'angoscia, alla disperazione - strani sentimenti per un nuotatore! - e mi hanno condotto persino a sospettare... che il nostro viaggio per il mare-notte sia senza significato.
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<< Oh, ma sicuro, "Amore!" uno sente ripetere da tutte le parti: "E' l'amore che ci guida e ci sostiene!". Traduco: non sappiamo che cosa ci guidi e sostenga, ma solo che siamo miserabilissimamente guidati e nel modo più imperfetto sostenuti. Chiamiamo Amore la nostra ignoranza di ciò che ci sprona, ecco. "Per raggiungere la Riva", allora: ma, e se la Riva esistesse semplicemente nella fantasia di noialtri nuotatori? se ce la sognassimo noi tanto per giustificare il fatto che nuotiamo, che abbiamo sempre e soltanto nuotato e che continueremo a nuotare senza requie (tranne me) fino a che non morremo? Anche supposto che una Riva ci sia (supposto che, come un mio cinico compagno immaginò una volta, gli annegati un bel giorno risuscitino e si accorgano che tutte quelle volgari superstizioni e quelle esaltate metafore non erano che la pura letterale verità: il gigantesco Sommo Fattore e la Mèta Luminosa al termine del mare e della notte!) ebbene, che ci farà un nuotatore, una volta là? Il fatto è che, quando c'immaginiamo la Riva, quel che ci viene in mente è l'esatto contrario della nostra attuale condizione: niente più notte, niente più mare, e non più dover viaggiare. In breve: il beato stato dell'annegamento.

(Tratti da "Lungo viaggio di mare e di notte" John Barth - La Casa dell'Allegria)
 
 
Sono un pò di giorni che ho in testa un'idea per un racconto. E' arrivata così, senza un apparente motivo, e non vuole saperne di lasciarmi in pace. Sta diventando una specie di ossessione. Non sono neanche così convinto di avere le capacità per svilupparla. Forse non lo farò mai. O probabilmente rimarrà inconclusa, un pò come tutte le altre idee che mi sono passate per la mente fino ad oggi. Il problema, forse, è che sono troppo critico verso me stesso e subito dopo aver iniziato una cosa, la mollo pensando di non esserne all'altezza. Ho sempre fatto così un pò con tutto, non solo con i racconti. Comunque in quest'idea c'è uno strano posto, una prateria infinita, una baracca di lamiera arrugginita e un laghetto che sembra più una palude. E nel cielo un sole che è come fosse sempre fermo, un'enorme palla di fuoco dalla luce, però, sospesa e debole, di un colore arancione avvolgente, come in un tramonto perenne. La baracca è in realtà una specie di strano rifugio per pescatori. C'è poco al suo interno. Una branda, un tavolino, un cucinotto che funziona a legna. Strane foto alle pareti. Pescatori che mostrano i loro enormi trofei appesi all'amo. Una piccola finestrella dalla quale, insistentemente, quell'arancione entra, colorando le pareti fatte di lamiera e legno fradicio. Al suo interno un giorno si sveglia un uomo. Non si ricorda come sia arrivato lì, gli sembra solo di non aver fatto altro che ubriacarsi fino al giorno prima. La testa gli fa male e fatica a ragionare. Quando si rende conto di essere nel bel mezzo di una sorta di deserto, spaventato, si ributta a dormire. Va avanti così, per giorni apparenti, dormendo per la maggior parte del tempo. Ad ogni risveglio quel sole è sempre lì e la sua barba sembra crescere in modo irregolare. Una volta si sveglia ed è perfettamente rasata, la volta dopo invece è lunga e folta.
Ecco, più o meno, questa è l'idea. Per il resto sono totalmente ignaro di come possa procedere. Per ora ho buttato giù solo tre o quattro pagine. Forse, semplicemente, un racconto del genere non ha una fine, nè uno svolgimento. Non può averlo. Andrebbe troppo oltre l'immaginabile e diverrebbe, forse, qualcosa di troppo confuso e instabile. Ah, naturalmente, una delle prime cose che fà l'uomo, è provare ad andarsene. Da quel rifugio parte un unico piccolo sentiero sterrato che si immerge nella steppa. Lo percorre fino a essere stanco e le prime volta torna indietro. E' troppo stanco e non può farcela. Probabilmente un giorno, dopo aver messo da parte le forze necessarie, lo percorrerà fino in fondo quel sentiero. E probabilmente, dopo una camminata infinità, ritroverà davanti a sè quella baracca e quel lago maledetto, arrivando dal lato opposto da quello da cui era partito. E allora cosa potrà fare? Per ora non ne ho idea.
Potrebbe chiamarsi Piccolo Inferno Privato. Non sò.





11/01/12

Ma perchè se non sei un provetto David Foster Wallace, sempre cinico e sarcastico, politicamente scorretto ma simpatico, dissacrante e provocatorio, magari con un pò di sesso buttato nel mezzo, non ti si caga anima viva?!? 
Che poi, sia chiaro, a me David Foster Wallace piace pure, però diventare dei sosia privi di personalità, solo per cavalcare l'onda, mi sembra molto triste.

09/01/12

Impossibile, per me, vedere cosa si cela dietro il cielo. Vorrei poter scrutare attraverso una lente di un telescopio per riuscire ad afferrare quelle stelle e, toccandole con mano, scoprire finalmente di quale materia sono fatte. Probabilmente sono solo una miriade di lampadine appese a un soffitto buio e infinito. Questo spiegherebbe almeno perchè, a volte, sembra di vedere scomparire una stella davanti ai propri occhi. In un'attimo quel barlume splendido, che brilla come gli occhi di una dea, si affievolisce fino a svanire nel profondo nulla assoluto. Così, come una freccia che ti colpisce al cuore, senza darti nemmeno il tempo per renderti conto che stai per morire. Scompare improvvisamente, lasciando dietro di se solo un lieve bagliore, come il ricordo di un amore sofferto che ti svegli un giorno e non c'è più, e neanche più nei sogni ricordi il suo nome.
Ma le stelle sono ovunque, dissolta una subito ne appare un'altra nelle vicinanze, ancora più brillante e preziosa. Per questo, siamo portati a sperare, forse stupidamente, che quel fortunato meccanismo che, silenziosamente, avviene in quella cupola misteriosa sopra le nostre teste, potrebbe, come per riflesso, funzionare anche su questa squallida terra. Questo però, presupporrebbe una somiglianza tra noi e le stelle. E come poter paragonare noi bestie feroci con quelle idee divine che vivono, luminose e irraggiungibili, nel cielo, senza neanche sfiorarsi tra loro(?). Forse i nostri sentimenti, o quel che ne rimane, potrebbero reggere il confronto. Ma credo che ne uscirebbero sconfitti. E' troppo tardi. Forse, all'alba dei nostri cuori, erano davvero qualcosa di simile alle stelle. Oramai, il tempo inesorabile che passa, li ha degradati a qualcosa di meschino, privo di ogni lucentezza. E questo soffio insensibile che spegne ogni fiamma, si ripete dentro ognuno di noi, quando cresciamo e vediamo, rivelato ai nostri occhi, il mondo per quello che è veramente. E' il tempo che corrode ogni cosa, lasciando dietro di se e dentro di noi il vuoto più assoluto. Tempo assassino.
Forse sono proprio i nostri sentimenti svaniti a rimpiazzare tutte quelle stelle che, nel cielo, sembrano morire ogni notte davanti ai nostri occhi stanchi. Ma mi rendo conto che perdersi in questi paragoni e pensieri pseudo romantici è cosa squallida, dannosa e inutile. Sono stanco di queste stelle, che si spegnessero pure una dopo l'altra improvvisamente, lasciandoci a quel buio che più si addice alla nostra anima. Sarebbe meglio per tutti. Così almeno eviterebbero di illuderci ogni qual volta alziamo gli occhi al cielo, nella notte.
Maledetto sia quel dannato bagliore ingannevole e infinito, che non smette di illuminare anche le notti più solitarie, ascoltando ogni delirio, accompagnando la nostra insonnia.
E poi, alla fine, è probabile che davvero, quelle lucette luminose sospese nel cielo, non sono altro che tristi lampadine da due soldi. Chissà poi chi la paga la bolletta.
D'altronde un telescopio per vedere con i miei occhi non ce l'ho e non ce l'ho mai avuto, neanche da bambino, purtroppo. O forse per fortuna, così posso rimanere nel dubbio.
Perchè, infondo, io non ho speranza, io ho fede.

05/01/12

E' mattina e le possibilità sono molteplici.
Potrei uscire di casa e confondermi tra la nebbia.
Potrei camminare senza sosta, facendo finta di avere una direzione, con il solo desiderio di perdermi.
Potrei sedermi in un parco, come se nel cielo un sole caldo risplendesse, quando in realtà è pieno inverno e il freddo avvolge le mani con guanti di ghiaccio.
Potrei rimanere fermo e immobile, in silenzio, per ore infinite e giorni e chissà magari anni.
Potrei guardarmi allo specchio e non riconoscere neanche il mio volto.
Potrei fuggire via da questo luogo, prendere un treno e andare lontano, nascondendomi in qualche posto per l'eternità.
Potrei raggiungere quella montagna che si estende davanti a me, sembra quasi un vulcano e forse, un giorno, esploderà.
Potrei respirare normalmente come se nulla fosse accaduto.
Potrei dormire per il resto dei miei giorni, fare miliardi di sogni e in quei sogni perdermi in mondi inimmaginabili.
Potrei camminare sulla via di casa e, voltandomi, vedere due pecore che brulicano l'erba, in un pezzo di terra grande quanto un aula scolastica.
Potrei fare l'amore e esplodere in orgasmi che urlano il tuo nome.
Potrei dimenticarmi anche il tuo nome.
Potrei essere tutto ciò che voglio, qui e ora.
Potrei non volere niente.
Potrei innamorarmi ancora del tuo volto sconosciuto, solo per farmi del male.
Potrei fare un falò dei miei ricordi e voltare le spalle al mio passato.
Potrei divorare affamato ogni secondo che mi rimane.
Potrei dissolvermi nell'universo senza gravità, fluttuando nel buio illuminato dalle stelle
Potrei fare colazione, accendere la televisione e bestemmiare.
Potrei non essere me stesso.
Potrei saltare dal 110° piano di un grattacielo per volare via, lasciando il mio corpo in frantumi sull'asfalto.
Potrei scrivere centinaia di parole e poesie e poemi, semplicemente pensandoti.
Potrei strappare i tuoi occhi, così che il cielo non possa più guardarmi.
Potrei pregare un Dio misericordioso e aspettare la sua risposta.
Potrei ucciderti, amandoti.
Potrei morire anche questa sera, con un ago piantato ben saldo in una vena e con la mente persa altrove.
Potrei anche vivere, forse.

Potrei fare tutte queste cose e forse anche altre, eppure non farò nulla e mi limiterò, come sempre, a guardare i minuti che passano, uno dopo l'altro, in attesa. E tutto questo perchè sono un vigliacco, non posso farci nulla.

30/12/11

Venire al mondo


Dammi il silenzio che solo tu sai dare,
brucia la mia anima, brucia le mie vene
fai che il cammino sia breve,
tutto quello che non ho
è ciò che mi manca,
questa vita è troppo lunga
e la mia voce è già stanca.
Vorrei strappare i tuoi occhi,
così che il cielo non possa più guardarmi.
Io non ti amo
e non ti ho mai amato,
perchè sono stanco
stanco come una montagna,
come la tua bocca quando mi parla,
perchè la vita è come una spugna
che assorbe ogni cosa,
ogni emozione,
ogni parola
e ora non mi rimane più niente
ma il mio sangue scorre
e scorre come un fiume.
Ti prego indicami la fine
perchè non resisto più
dimmi dov'è che il cielo finisce
dimmi dov'è che il mare finisce
dimmi dov'è che il tuo amore finisce
dimmi dov'è che la vita finisce.
L'errore è nascere
solo nascere.
Venire, venire al mondo
venire sopra il tuo corpo.

26/12/11

"Aveva gettato uno sguardo per il giardino ed era come se frammenti delle sue palpebre si fossero staccati per mettersi a svolazzare e saltellare davanti a lui, muovendosi nervosamente in ombre e forme, sussultando al colpevole cicalare della sua mente, non ancor voci del tutto, ma queste tornavano, queste tornavano; un'immagine della sua anima come una città apparve ancora una volta davanti a lui, ma una città, questa volta, devastata, folgorata nel cupo sentiero dei suoi eccessi, e chiudendo gli occhi brucianti egli aveva pensato al perfetto funzionamento del sistema in coloro che vivono veramente, commutatori ben connessi, nervi tesi solo nel caso di un autentico pericolo, e ora in preda a un sonno senza incubi, calmo, non in riposo, ma in equilibrio: un villaggio pacifico. Gesù, come era esasperata la tortura (e intanto c'era ragione di supporre che gli altri credessero che lui si divertisse immensamente) dall'avere coscienza di tutto ciò e nello stesso tempo dalla consapevolezza di come tutto l'orribile meccanismo si venisse disintegrando, con la luce che ora si accendeva ora si spegneva, ora troppo abbagliante ora troppo fioca, col bagliore di una batteria morente a singulti di luce... per poi finalmente sapere tutta la città sprofondata nelle tenebre, dove ogni comunicazione è perduta e il movimento diviene mera ostruzione e le bombe minacciano e le idee fuggono alla rinfusa...
Il Console aveva finito ora il suo bicchiere di insipida birra."
(Malcom Lowry - Sotto Il Vulcano)

23/12/11

Il freddo gela le idee che come biglie impazzite attraversano la mia mente. Non c'è una soluzione a questo infinito avvicendarsi di ore, giorni, albe e tramonti, attimi sospesi tra falsi piaceri e sensazioni di vuoto assoluto. Tra due giorni è natale e l'unico desiderio che mi opprime è quello di chiudere finalmente gli occhi. Sono stanco di stare a guardare questo strano mondo che scorre davanti a me. Mai come ora mi seno estraneo a tutto questo.
Ogni giorno mi sveglio in una realtà sempre più confusa e sconosciuta. Tutte queste parole che scorrono sui giornali pregni d'inchiostro mi appaiono come geroglifici indecifrabili. Questa crisi ormai sulla bocca di tutti, quest'ipocrisia diffusa di criticare ciò che si è contibuito a creare - così da giustificare ogni azione o imposizione bieca e infame -, questo bisogno di sentirsi protagonisti, questo chiacchiericcio squallido da bar, ecco tutto questo e molto altro mi lascia totalmente indifferente e con una profonda sensazione di nausea che pervade il mio corpo. Vorrei semplicemente chiudere gli occhi e tapparmi le orecchie.
Sarò vigliacco, ma se questo è il vostro esercito, io sarò il primo a disertare, se questa è la vostra prigione, sarò il primo a fare una fune con le lenzuola per appendermi al soffitto. Infine, se questo è il vostro mondo, non contate su di me.
E nella mia consapevolezza di essere infinitamente debole e impotente non desidero compassione, ma la più totale indifferenza. Eremita isolato all'interno del mio fragile corpo non chiedo di essere compreso ma, al contrario, di essere ignorato e lasciato in pace.
Davanti ad un futuro impossibile non mi rimane che aspettare. Nel frattempo l'unica cosa che potrebbe allietare l'attesa è forse quella di andare a vivere in uno di quei fari di segnalazione sperduti su quelle coste rocciose che combattono ogni giorno la loro lotta immortale contro l'oceano. Sò che, purtroppo, questi fari sono ormai totalmente automatizzati e non necessitano di manutenzione se non molto sporadicamente. Ma non importa, io non chiedo denaro, mi basterebbe un pasto al giorno, qualche libro, carta e penna, una luce, una branda e magari una piccola stufa a legna e una scorta di tabacco. Non è poco, ma, infondo, non credo sia neanche pretendere troppo. E poi se proprio devo sognare questa è l'unica cosa che ora mi viene in mente e sono sincero.
Assistere a quelle due maestose potenze (terra e mare) che febbrilmente si scontrano, ora dopo ora, minuto dopo minuto, tra tregue apparenti e violente battaglie, sarebbe per me l'ispirazione più grande. Lì, in quell'apparente desolazione, è racchiuso, secondo me, l'estremo significato della natura umana, che è ormai scomparso in queste città immense come cimiteri a cielo aperto.
Certo è probabile che dopo qualche mese di totale isolamento impazzirei, ma in quel caso ci sarebbero sempre le grandi braccia dell'oceano pronte ad accogliermi.

21/12/11

"Quanto al resto, si ha un bel darsi da fare, si scivola, si sbanda, si ricasca nell'alcool che conserva i vivi e i morti, non si arriva a niente. E' assolutamente provato. E' da tanti di quei secoli che possiamo guardare i nostri animali che nascono, faticano e muoiono davanti a noi senza che a loro gli sia mai capitato nient'altro di speciale che non fosse ricominciare lo stesso insulso fallimento là dove tanti altri animali l'avevano lasciato. Avremmo dunque dovuto capire quello che capitava. Ondate incessanti di esseri inutili vengono dal fondo dei tempi a morire in continuazione davanti a noi, e tuttavia restiamo lì, a sperare qualcosa... Nemmeno capaci di pensare la morte che siamo."

(Louis-Ferdinand Céline - Viaggio Al Termine Della Notte) 

17/12/11


Ho bisogno di respirare aria nuova,
scoprire angoli illuminati,
dove la vista non fa fatica
a perdere coscienza.
Questo è il mio desiderio,
il mio ultimo sogno,
un alba nuova da scorgere
e un ultimo tramonto in cui perdersi.
Sono schiavo di me stesso,
dei miei problemi,
della mia pelle arruginita,
ho bisogno di calore
a ogni ora del giorno,
il mio sangue è freddo
e ho paura di diventare
ciò che già sono ormai.
Ho seguito il sentiero,
ho scavato una buca
e li ho rinchiuso la mia anima.
Ora ho perso la rotta
e mi sento così vuoto,
vuoto come l’oceano,
freddo come l’aria,
in preda ai ritmi del mondo,
giorno e notte,
albe tramonti e stagioni,
non sò più dove sono
e non mi sono mai mosso da qui
e ho viaggiato per distese di città,
paesaggi di palazzi illuminati,
visi e amori e suoni metallici,
e non sono mai torna indietro
e non mi sono mai mosso da qui
e non ho mai chiesto altro
che tutto quello che già ho,
sono io che mi manco.
E non so dove sono,
perso nei meandri della mia mente bagnata,
cercando segnali tra la nebbia,
in ogni alba
spero di scorgere qualcosa,
un ombra,
un sentiero,
o anche solo
la fine.


Il caos quotidiano strisciante si insinua in silenzio in questa mattina paralizzata tra deliri insonni e assurdi pellegrinaggi senza senso nè direzione.
Immobile, tra inutili luci natalizie a intermittenza, fatico a riconoscermi, come se il riflesso sbiadito di quell’ombra che in continuazione mi segue fosse solo il prodotto di una qualche illusione ottica. Mi assale con prepotenza il dubbio del non essere. Sono forse un fantasma? Gli sguardi della gente mi attraversano senza fatica e tutta la città scorre impegnata nella sua folle complessità, totalmente ignara del mio smarrimento e della mia confusa immobilità.
Un’ora fà, davanti all’edicola, mentre ero intento ad acquistare il solito inutile giornale, apparve una signora di mezza età, dall’aspetto perfido e luciferino, che, avvolta nel suo squallido piumino beige, senza guardarmi neanche, come se non si fosse accorta di me, un secondo prima che riuscissi a rivolgermi all’edicolante, ordinò noncurante la sua bella rivista di gossip e dopo aver pagato se ne andò senza salutare. Allora accadde qualcosa di strano. La signora dietro il box dei giornali, che pure prima mi aveva anche dato un accenno di saluto, improvvisamente sembrò dimenticarsi della mia presenza.
Era come se, leggittimata dalla totale indifferenza della vecchia in beige, da un momento all’altro avesse smesso di vedermi e sentirmi. Lì, in quella desolata edicola, così come un fulmine scompare nel cielo dandoti a malapena la possiblità di notarlo, io smisi di esistere.
Provai più volte ad attirare, in qualche modo, l’attenzione dell’edicolante, ma lei senza farci caso continuò a ignorarmi, impegnata a sistemare giornali dietro il bancone. Così, come ero entrato, uscii senza far rumore, privo del giornale e privo della mia ombra, che in quel momento sembrava come essersi improvvisamente astenuta da quel pedinarmi continuo.
In quel momento mi domandai se davvero fossi diventato una sorta di fantasma, un essere invisibile ma mortale che impotente vive nel silenzio e nella solitudine. All’istante tutti gli assurdi avvenimenti che mi erano capitati negli ultimi mesi mi furono più chiari.
Mi ritrovai seduto al solito tavolino del solito bar, con l’inutile radio ronzante di sottofondo, intento a riflettere su J. che da un giorno all’altro sembrava essersi dimenticata della mia esistenza, o alla completa scomparsa nel nulla di molti dei miei amici e infine a tutta quella massa di persone che ogni giorno scorreva per le strade come rapide violente e incessanti, senza minimamente accorgersi della mia presenza e attraversandomi con lo sguardo e a volte persino con il corpo. Tutto mi era chiaro.
La mia pelle, il mio corpo, erano illusioni della mia mente, il mio cuore e il mio sangue, che ancora sembrava scorrere, erano solo il ricordo di ciò che era stato.
Non esistevo. Forse non ero mai esistito veramente.
I dubbi cominciarono ad assalirmi, le paure riempirono ogni mio pensiero. Confuso e silenzioso mi alzai quasi tremante, quando improvvisamente uno squarcio di quel sole invernale, che troneggiava nel cielo, entrò nella veranda del bar illuminandomi parzialmente. Istintivamente mi voltai e con stupore vidi comparire, disegnata sul muro, la mia ombra. La mia instancabile ossessione, sorvegliante del mio corpo e della mia anima, testimone diffidente di ogni secondo, di ogni giornata, era ancora lì, alle mie spalle, leggermente sbiadita ma dai contorni ancora evidenti.
Forse mi ero sbagliato, pensai. Esistevo, ero reale come il sole e le nuvole, come quegli stessi fulmini che, nonostante improvvisi e sfuggenti, esistevano e lasciavano sempre un bagliore nel cielo o magari il fragore di un tuono per ricordarlo.
Entrai nel bar per pagare la colazione, andai alla cassa e, proprio mentre stavo per tirare fuori il portafoglio, di nuovo un signore anziano si intromise con i suoi baffi bianchi e spavaldi e, passandomi praticamente attraverso, pagò il suo caffè senza neanche notarmi.
Non potevo crederci, confuso mi guardai intorno e provai a parlare con il barista ma, senza farci caso, tornò alla macchinetta del caffè. Mi fermai un attimo per riflettere e poi uscii in silenzio.
Infondo, pensai, una colazione gratuita non era da buttare via. Cosa importa poi del resto.
Me ne andai dritto per la mia strada, senza tante preoccupazioni, bestemmiando come al solito per quel caos strisciante che popolava la città ogni mattina, in compagnia della mia solita ossessione che, credendo di non esser vista, silenziosamente mi seguiva, nascosta dietro le mie spalle. Ma io riuscivo a sentirla, sapevo che era lì, fedele come sempre, ormai quasi in simbiosi con quel mio corpo stanco. E anche io ero lì, ombra della mia ombra, esistevo in funzione di essa. Potevano anche attraversarmi con i loro sguardi o ignorare la mia presenza, ma il mio cuore, anche se a fatica, batteva e il mio sangue imperterrito scorreva ancora.
E fanculo a tutto il resto.

13/12/11

I giorni scorrono in silenzio,
come le luci dei lampioni
in una strada di campagna.
Il buio intorno,
il gelo negli occhi.
Forse dovrei fermarmi,
fermarmi qui
e chiedere informazioni a qualcuno
- Dove siamo qui? dove sono?
Cos'è questo freddo? -
Invece di continuare
lungo questa strada
che sembra non finire più.
A volte poi mi distraggo,
immagino il mare,
il mare intorno,
ovunque,
il rumore dell'acqua,
poi riprendo a guardare
quella linea bianca
che fissa scorre
davanti a me,
prima o poi arriverà da qualche parte,
prima o poi il buio,
quel buio che sfregia la notte,
lascerà spazio alla luce
e il gelo,
quel gelo immortale,
darà tregua ai nostri corpi.


12/12/11

"Ho pensato spesso con gioia alla rovina che il tempo va facendo alle mie memorie; piú spesso vi ho pensato con dolore. Dimenticare! È uccidersi, è rinunciare a quell’unico bene che possediamo realmente e impreteribilmente, al passato. Ché se si potessero dimenticare soltanto le gioie, forse l’oblio potrebbe essere giustamente desiderato; ma dei nostri dolori noi siamo superbi e gelosi, noi li amiamo, noi li vogliamo ricordare. Sono essi che compongono la corona della vita.
Il passato è la misura del tempo che abbiamo percorso, la misura di quello che ci rimane a percorrere. Perciò noi lo teniamo caro, perché ci fa fede dell’accorciarsi progressivo dell’esistenza. Un’avidità febbrile di morire affatica inconsciamente gli uomini. Chi vorrebbe tornare indietro un’ora, un minuto, un istante nella sua vita? Nessuno; e pure si ama, e si rimpiange questo passato che si ha orrore di rinnovare.
Scrivere ciò che abbiamo sofferto e goduto, è dare alle nostre memorie la durata della nostra esistenza. Scrivere per noi per rileggere, per ricordare in segreto, per piangere in segreto. Ecco perché scrivo."

Iginio Ugo Tarchetti - Fosca 

06/12/11


E non so quasi più che giorno è
e forse questo momento l’ho già vissuto,
con la stessa intensità,
le stesse parole non dette,
la stessa paura.
Ma vorrei guardarti a fondo nell’anima
per prometterti che è tutta una bugia,
magari solo un sogno distratto,
tutta un’invenzione,
una messa in scena.
Vorrei farti ridere un pò,
mostrandoti le cicatrici rimaste,
vorrei aprire i tuoi occhi
per nutrirmi di quei silenzi,
così come fossimo ancora un pò amanti,
ancora un pò ubriachi,
ancora persi nel buio di quella notte,
quella notte senza fine
che usciva fuori dal tuo sguardo.
Perchè riconoscerei la tua voce
anche nel fondo dell’oceano,
e il tuo volto è impresso nella mia mente,
così a fondo,
la tua pelle, il tuo odore, i tuoi baci,
non dimenticherei mai nulla di tutto questo,
neanche il piu piccolo particolare,
semplicemente perchè,
nulla di tutto ciò è mai esistito.

05/12/11


E poi perdersi, per ritrovarsi ancora uguali a ieri, immersi nella confusione più totale. Anni e anni di nulla. Ore perse nel vuoto del nostro corpo pieno d’aria. Masochismo puro come insonnia all’anfetamina. Non c’è niente da guardare, niente di interessante in questa deserta mostra dell’assurdità. Le pareti della mia mente sono ricoperte da una carta da parati ammuffita e strappata qua e là. Un buio silenzioso padroneggia la stanza, solo le mura sono lievemente illuminate da piccoli lumi appesi. Al centro il nulla più assoluto. Un universo senza stelle. Sulla carta da parati si intravedono segni indecifrabili e avvicinandosi di più quei segni diventano lettere. Parole dietro parole, frasi sconnesse, binari pieni di alfabeti distorti e privi di logica, scorrono in ogni direzione. Nessuna immagine, nessun suono. Vibra il pavimento.
La stazione è piena di gente, si diramano ovunque, pieni di se, ognuno per la sua strada, assorti nei loro pensieri. Sguardi che non si incrociano e non si incroceranno mai. Migliaia di persone passano di lì ogni giorno. Come formiche impazzite si rifugiano nei treni, pieni di quella frettolosa avidità di tornare nelle loro tane. Niente altro che corpi pieni di aria. Non cercano niente, non vogliono niente. Si accontentano del loro nulla pieno di niente. Amano quel nulla che li riempie. Lo proteggono con cura. Come se a qualcuno potesse interessare quell’ammasso di ossa e polvere. Provo pena per loro. L’uomo è presuntuoso tanto quanto dio stesso, o almeno, la concezione di dio. Perchè Dio, ammesso che esista, è misericordia pura, altrimenti avrebbe già sterminato la sua misera creazione.
Oggi è un lunedì uguale a quello prima. Un giorno come tanti. Un insieme di ore privo di misura. Giorno, notte, sonno, veglia, sogno, delirio, realtà. Come distinguere stadi di coscienza quando ci si è persi da talmente tanto tempo che il proprio nome appare sbiadito anche sulla carta d’identità (?). E’ come quando da piccolo giravi e giravi su te stesso per perdere l’equilibrio e poi cadere confuso sulla poltrona. In quei pochi secondo perdevi di vista lo stato delle cose. Non sapevi più dov’eri, nè che giorno fosse. Ecco io mi sento come se da anni ormai fossi steso su quella poltrona, con la testa che ancora gira confusa, privo di coscienza, immerso nel torpore più assoluto, guardandomi intorno.
"Entrai in una valanga
Che travolse la mia anima
Quando non sono questo gobbo che tu vedi
Io dormo sotto la collina dorata
Tu che vuoi conquistare pena
Devi imparare, imparare a servirmi bene.
Per caso mi colpisci al fianco
Mentre t'immergi per l'oro
Lo storpio che qui vesti e nutri
Non è morto di fame nè di freddo.
Lui non chiede la tua compagnia
Non al centro, al centro del mondo.
Non fosti tu ad innalzarmi
Sul piedistallo in cui sono
Le tue leggi non mi costringono
A inginocchiarmi grottesco e nudo
IO STESSO SONO IL PIEDISTALLO
DI QUESTA TURPE GOBBA CHE STAI A GUARDARE.
Tu che vuoi conquistare pena
Devi imparare cosa mi rende gentile
LE BRICIOLE D'AMORE CHE MI OFFRI 
SONO LE BRICIOLE CHE MI SON LASCIATO DIETRO
La tua pena non ha credenziali qui
E' solo un'ombra, un'ombra della mia ferita.
Ho cominciato a desiderarti
Io che non ho credo
Ho cominciato a cercarti 
Io che non ho bisogni
Dici che te ne sei andata
MA POSSO SENTIRTI QUANDO RESPIRI.
Non vestire quegli stracci per me
So che non sei povera
E non amarmi così ardentemente ora
Quando sai di non essere sicura
Tocca a te, cara
E' LA TUA CARNE CHE INDOSSO."


Leonard Cohen - Avalanche


03/12/11

"Chiunque si salva con il sonno, chiunque ha del genio mentre dorme: non c'è differenza tra i sogni di un macellaio e quelli di un poeta. Ma la nostra chiaroveggenza non può tollerare che una tale meraviglia duri, né che l'ispirazione sia messa alla portata di tutti: il giorno ci sottrae i doni che la notte ci dispensa. Solo il pazzo possiede il privilegio di passare senza contrasti dall'esistenza notturna a quella diurna: nessuna distinzione per lui tra il sogno e la veglia. Egli ha rinunciato alla nostra ragione, come il vagabondo ai nostri beni. Entrambi hanno trovato la strada che conduce fuori della sofferenza e risolto tutti i nostri problemi; restano così dei modelli che non possiamo seguire, dei salvatori senza adepti."
(Emil Cioran - La Tentazione di Esistere) 

02/12/11


Era strano immaginare le figure di te e di lui
distese all’ombra di una camera d’albergo,
un albergo vicino alla stazione,
niente di impegnativo,
di quelli pieni di colori tristi
e angoli bui.
Io ti lasciai andare
con un semplice saluto,
e tu nell’ombra di quella stanza
ai piedi di un letto mal rifatto
in ginocchio davanti a lui,
la tue pelle così bianca
il tuo seno così bello
e quel tuo amore così grande.
Mi hai detto:
- amore perdonami -
mentre quella cucina
sprofondava sotto i miei piedi,
“amore perdonami
ti prego
è stato solo un errore,
un errore dovuto alle circostanze.”
Le circostanze,
le stanze a ore
e i tuoi occhi in lacrime.
Mi hai detto:
“dopo averlo fatto
ho pianto per ore”
per ore
i tuoi occhi in lacrime.
Ma io,
io non volevo sentire niente,
solo una cosa
volevo sapere:
dimmi amore,
dimmi,
cosa vi siete detti
distesi in quel letto,
all’ombra di persiane scadenti,
dopo aver frantumato
in un ora
la mia vita?

01/12/11

Il sole cuoceva le nostre anime stanche,
era luglio e Roma sembrava il deserto.
Non facevamo niente altro che respirare
e lo facevamo con fatica,
era come una guerra contro noi stessi
e sapevamo che ne saremmo usciti sconfitti,
come Bardamù nelle colonie africane
o in un america sconosciuta
perdevamo il nostro coraggio ad ogni risveglio.
La monotonia era parte di noi,
dei tramonti mai così tanto attesi,
talmente tanto che poi, mentre guardavamo
il sole sparire,
avremmo voluto fermare il tempo
per fuggire via.
Io ogni lunedì mattina alle 8.15
andavo puntuale all'apertura del sert
- mi affidavano un'altra settimana di vita -
la dottoressa fingeva anche di interessarsi
di me e della mia vita
della mia malattia.
Uscivo da quel posto un pò stanco
come se non avessi mai dormito,
mi sedevo nel bar più squallido del quartiere
per evitare la folla di chi vive il giorno, 
in un angolo tiravo fuori un piccolo quaderno
e nascosto come un vigliacco
scrivevo.
Scrivevo pensieri senza molto significato
sempre le stesse parole
la stessa poesia miliardi di volte,
scrivevo di te e dei tuoi occhi,
del sole che brucia la pelle,
del metadone e di quella mattina d'estate
in cui tutto d'un tratto un temporale
squarciò quel paesaggio di fiamme
e i fulmini illuminavano la tua pelle
e la pioggia ci confondeva le idee
e dopo nulla fu più come prima
noi stessi, quell'estate
fu come una sconfitta
anche solo per un istante.


29/11/11

"Quel pò di vita che la droga gli lasciava era impregnato di droga e lo riportava alla droga. Non poteva fare un gesto, pronunciare una parola, andare in un luogo, incontrare qualcuno, senza che una associazione di idee lo riportasse alla droga. Tutti i suoi gesti tornavano a quello di bucarsi (prendeva l'eroina in soluzione); il suono della sua stessa voce non riusciva più a far vibrare in lui se non la sua fatalità. Era stato toccato dalla morte, la droga era la morte, e dalla morte non poteva ritornare alla vita. Non poteva che tuffarsi nella morte, dunque ricominciare con la droga. E' questo il sofisma che la droga ispira per giustificare la ricaduta: sono perduto, dunque posso drogarmi ancora."
Pierre Drieu La Rochelle - Fuoco Fatuo 
Completamente solo
abbandonato anche da me stesso
guardo le linee del mio volto
svanire
e in preda a spasmi di terrore
fumo un ultima sigaretta
prima di venire.
E' solo sesso ciò che cerco
depravato come un cane rabbioso in cerca di una preda,
assurdo come una danza spastica e stonata.
All’interno di queste mura
che sembrano squagliarsi,
ad ogni movimento
apro varchi nel tuo corpo
cercando vie d’uscita
dalla tua fica stretta,
e le tue gambe morbide.
Vorrei svanire ora
prima di venire
e lasciarti sola in un attimo
per vedere il tuo volto
disteso
in un ignoto spazio profondo.
Ora che sono vuoto
svuotato di sperma,
anima e sensazioni,
posso finalmente innamorarmi
di tutto ciò che non è umano,
della morte ad esempio
o delle nuvole che corrono,
dell’urina di un cane
o delle pozzanghere di pioggia,
così da distogliere lo sguardo
da tutto ciò che si muove
e fuggire dal tuo utero
per dissolvermi nello spazio.